L’ingresso degli editori nei social media ha provocato una serie di critiche da parte di alcuni esperti digitali, blogger e giornalisti. Chi ritiene che gli editori abbiano commesso un grave errore strategico, sembra non essersi accorto che il digitale sta portando a una nuova configurazione dell’informazione
di Sergio Baraldi
L’argomentazione contro l’accordo con Facebook e Google è che il volume di traffico è cruciale per gli introiti pubblicitari e la decisione degli editori di allearsi ai social somiglia a una resa al nemico. Gli editori, infatti, si metterebbero nelle mani del loro carnefice o, nel caso più favorevole, starebbero programmando un suicidio. I rapporti di forza esistenti non lascerebbero margine a finali alternativi. I social media di fatto stanno diventando a loro volta editori e sostituiranno quelli “tradizionali”.
DALLA DIFESA A UNA STRATEGIA PROATTIVA
Sono argomenti che persuadono? Vorrei provare a rifletterci senza pretendere di stabilire nessuna verità. Gli editori devono fronteggiare da anni una crisi pesante: le vendite in edicola sono in calo, i fatturati scendono, la raccolta pubblicitaria non sembra riprendersi e la crescita delle copie digitali non copre le perdite generate dalla carta. Con questo drammatico scenario alle spalle, la decisione di sbarcare sui social sembra il primo tentativo di affrontare l’emergenza con una strategia proattiva. Finora aveva prevalso la politica difensiva delle ristrutturazioni aziendali con perdita di posti di lavoro e taglio dei costi.
Se, dunque, una critica agli editori si può fare è che la svolta forse arriva in ritardo. Si può valutare “come” gli editori realizzano il business nei social media, “se” assicurano o no un prodotto originale e di qualità, “se” sono in grado di parlare al pubblico dei social, “se” tornano a investire. Il processo però è appena iniziato: prove ed errori vanno messi nel conto. È presto per formulare un giudizio.
Le ragioni delle perplessità sono due: una immediata, l’altra di scenario. Nell’immediato, il problema del traffico e della posizione dominante dei social media rappresenta una questione rilevante che gli editori italiani non sono in grado di risolvere. I critici giungono a una conclusione implicita: quegli accordi sono un errore, forse persino negoziati male. Tuttavia, se è difficile immaginare che i rapporti di potere possano cambiare rapidamente, si può pensare che le aziende editoriali restino ferme? O continuino nella politica dei tagli, che si sta rivelando dolorosamente utile per salvare i bilanci (e non per tutti nello stesso modo) ma che non rappresenta una risposta alla crisi?
IL GAP TRA L’OGGI E IL DOMANI
Gli editori si trovano nella complessa condizione di dover resistere in un presente non modificabile e a immaginare un futuro differente. Quello che fanno è cercare di colmare il gap aperto tra l’oggi e il domani. I social media rappresentano un passaggio cruciale di questo tragitto, perché le economie tradizionali perdono di importanza rispetto alle economie legate alla digitalizzazione e soprattutto alla rete.
Social media, social software e social network, secondo alcune analisi, potrebbero persino mutare la natura dell’economia contemporanea.
Il digitale e il social business non dovrebbero essere interpretati come un modo per mettere connessioni digitali al servizio di scelte aziendali.
Per gli editori il digitale non richiede solo un cambiamento nel fare le cose o incorporare il digitale nelle strategie di marketing, come potrebbe essere per aziende farmaceutiche, per l’Enel o l’Eni.
Per le aziende di comunicazione il digitale significa cambiare il modo di essere impresa.
È questa l’innovazione che si è fatta largo lentamente ma comincia a maturare effetti. Ogni settore o impresa ha il suo clock speed ed è fondamentale cogliere il tempo giusto per il “quantum leap”, il salto qualitativo. Riconoscere al digitale la centralità ha quindi delle conseguenze: cambiano la cultura del management e quella professionale, cambia l’impresa, cambia il modello di business.
RAGGIUNGERE I LETTORI NEL MERCATO RELAZIONALE
Per esempio, gli editori fanno bene a raggiungere i loro lettori attraverso le piattaforme social, anche perché spesso sono lettori che oggi non si rivolgono ai giornali. Il lettore deve essere raggiunto quando e dove serve a lui, tenendo conto del contesto in cui è inserito. Può cercare un’informazione o un servizio quando lavora, a casa, o per strada e il contesto in cui si trova, il “device” che utilizza, possono modificare le sue necessità informative. Lo stesso aggettivo “social” non deve essere inteso solo come piattaforma, deve contenere la capacità di usare i big data, deve incorporare l’idea di rete (tecnologica, sociale, culturale). In questi nuovi spazi, il lettore con i suoi valori, i suoi schemi cognitivi, le sue relazioni diviene parte essenziale dell’esperienza di consumo. La social business strategy ci conferma che i mercati oggi vanno considerati come conversazioni che hanno una parte relazionale, comunitaria, come già sosteneva il “Cluetrain manifesto”. Questa concezione ci allontana dall’idea classica di “homo oeconomicus” cui restiamo troppo spesso ancorati.
I social diventano parte importante della nuova “collaborative economy” in cui le reti di produzione del valore, incluse le decisioni di governance, possono essere esterne all’impresa. È qui che emerge un altro mutamento strutturale che sposta l’attenzione verso i lettori-utenti, verso le interazioni. Verso la rete. Infatti, come sanno bene gli esperti di marketing digitale, la parola d’ordine è “share”, condividere. La focalizzazione dall’interno all’esterno (e poi di nuovo all’interno) delle imprese rimescola le nostre convinzioni su che cosa è e come si fa il business digitale.
Nei mercati che poggiano su una architettura relazionale e collaborativa è la logica lettore-centrica che ispira il modello di business. In queste condizioni, i confini dell’azienda editoriale non coincidono con i suoi confini giuridici. La strategia digitale porta a trascendere le singole funzioni aziendali e sembra in grado di ridefinire le modalità con cui soddisfare i bisogni e i desideri dei lettori, oltrepassando i classici confini dei settori preesistenti e collegandosi alle possibilità di cooperazione offerte dalle piattaforme social.
Tutti i processi collegati con il valore per il lettore vanno riprogettati.
Difatti questa scelta non solo rende più urgente la riconfigurazione del giornale di carta, ma rimette in questione lo stesso sito delle testate (si pensi alla perdita di attrazione delle home page).
IL NUOVO GIOCO DELLA CATENA DEL VALORE
Il digitale trasforma molte regole del gioco. Esso permette alle aziende di specializzarsi non su tutta la catena del valore ma in singole aree, perché consente di aggregare servizi in modo più economico e veloce e una più efficace segmentazione del mercato. Diventa possibile fare quello che fino a ieri era vietato: collaborare con i propri concorrenti anche attraverso uno scambio di dati. Gli editori hanno un sevizio informativo autorevole, credibile rispetto a quello che circola sulla rete e soprattutto sui social. In questa logica, che ridisegna la catena di valore, non può sorprendere che i social media e gli editori possano trovare un modo per cooperare. È la legge dello “sharing”, della condivisione di informazioni, dati, contenuti e altre risorse che possono aumentare di valore se sono inserite in reti social-mobile.
Nel digitale la creazione di valore può avvenire all’interno dell’azienda ma anche (talvolta soprattutto) all’esterno di essa, per esempio nelle interazioni con i lettori sui social o sul mobile. Ma c’è di più: il valore delle imprese che collaborano, spiegano gli studiosi, deve avere una distribuzione ampia tra tutti i partner coinvolti nei processi, inclusi i lettori divenuti social e i social media.
Se si leggono le critiche all’accordo, emerge un postulato tacito in cui il controllo è ancora immaginato come azienda-centrico. Temo che si illudano, perché nella nuova economia digitale non si può guardare alla catena di valore secondo vecchi schemi. Occorre avere come riferimento qualcosa di più grande: la costellazione del valore di cui si fa parte.
Il controllo nell’era digitale è ottenere percentuali più o meno importanti del valore complessivamente generato.
Anche in questo caso, le nuove condizioni dell’economia digitale sembrano reinventare il significato di ciò che fa l’impresa editoriale. La logica del social mobile business offre opportunità, ma costringe anche a ripensare in termini nuovi la catena del valore, aprendosi alla trasparenza e alla collaborazione.
PENSARE DIGITALE PENSARE ANALOGICO
Ci si deve abituare a confini d’impresa più flessibili e incerti: dove finisce l’editore e dove comincia Facebook? Le strategie relazionali che occorre mettere in campo obbligano a una nuova concezione del valore, inteso non solo come utilità-profitto ma come esperienza, condivisione di significati (il sense-making). La nozione stessa di controllo, così importante in un’azienda, subisce una de-ri-costruzione: generare valore per il mercato non basta, occorre ottenere una quota della configurazione di cui si fa parte. È chiaro che per questa via anche il concetto di competizione viene rielaborato: più che le aziende, oggi competono gli ecosistemi digitali. È la nuova dimensione in cui dobbiamo orientarci.
Queste osservazioni forse consentono di inquadrare in una diversa prospettiva l’accordo tra gli editori e i social. Ci aiutano a comprendere che il problema principale non è affrontare i mutamenti, ma avere la cultura adatta per gestirli e guidarli. Le alleanze, in una architettura che interviene in ogni snodo della rete, sono determinanti.
C’è da chiedersi se troppi nel digitale non continuino a pensare analogico. La questione è che internet viene associata a un’immagine salvifica troppo influenzata dal determinismo tecnologico. In realtà internet crea instabilità, turbolenza, cambiamento permanente. Le competenze di cui si ha bisogno non sono quelle di base (scontate) o distintive (necessarie ma non sufficienti), servono competenze dinamiche che consentano l’adattamento e l’apprendimento continui.
Il digitale è “liquido”, le imprese editoriali sono ancora troppo fordiste.
Le nuove strategie devono fare i conti con una nuova scala (la costellazione e la piattaforma invece che l’azienda), la velocità, la caduta di barriere tradizionali (Google che crea l’auto che si guida da sola) e le nuove fonti di valore (l’informazione e la comunicazione).
TEMPO DELLE SCELTE E TEMPO DELLA FIDUCIA
È una sfida in cui gli editori sono chiamati a riconfigurare la proprie infrastrutture, la propria offerta, la propria identità. Devono calcolare che i tempi delle decisioni si accorciano, mentre quelli per ottenere i risultati si allungano, perché la relazione, la fiducia, il dialogo, la condivisione si costruiscono solo nel tempo. Se ieri era importante assicurarsi il vantaggio del “first mover”sul mercato oggi è più rilevante conquistare quello del “fast mover”.
Non conta tanto avere l’idea prima degli altri, quanto saperne estrarre valore più rapidamente, innovando in modo permanente.
Gli editori italiani possono avere commesso degli errori nella trattativa con i padroni del traffico, ma stipulando l’alleanza con i social sembrano avere compreso la posta in gioco. Si tratta di passare da una gestione tattica della crisi a una strategica, da una visione strumentale a una olistica. Questo significa non solo riallineare il modo di stare sul mercato, ma anche l’organizzazione delle risorse e la cultura interna.
Gli indizi si vedono nelle riorganizzazioni delle redazioni. Anche gli editori sono spinti a progettare un’unica costellazione di valore alimentata in ogni nodo dalle potenzialità di internet e tradotta in un modello finanziario sostenibile in grado di garantire ricavi che remunerino capitale e lavoro. La partita è la migrazione delle aziende editoriali verso il profilo di web company specializzate nelle quali la carta continuerà ad avere un ruolo importante, ma dentro una nuova configurazione dell’informazione.
Sergio Baraldi
Diventato giornalista a L’Ora di Palermo è stato giornalista parlamentare a Roma, dopo di che ha diretto per trent’anni i quotidiani locali del Gruppo L’Espresso. Tra le testate di cui è stato direttore Il Messaggero Veneto, Il Piccolo, L’Alto Adige, La Gazzetta di Mantova. Avendo iniziato a lavorare ai tempi delle linotype, oggi, dopo avere vissuto in prima persona i cambiamenti legati alle nuove tecnologie, le studia, traendone significative riflessioni che condivide con un pubblico di “addetti ai lavori”.